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Jeff Buckley: Venerdì 11 Marzo esce il disco “You and I”

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Jeff Buckley - photo by Merry Cyr
Una raccolta dei primi esperimenti in studio del cantautore statunitense riscoperti dopo 20 anni negli archivi Sony Music. Con 2 brani inediti e 8 cover, tra cui quelle di Bob Dylan, Sly & the Family Stone the Smiths, Bukka White, Led Zepplin

Venerdì 11 marzo esce “You and I” (Columbia e Legacy Recordings), una raccolta delle prime registrazioni in studio di Jeff Buckley per Columbia Records, 10 brani (cover e brani originali) riscoperti negli archivi Sony Music che, grazie al suono della sola voce del cantautore americano e della sua chitarra, ne regalano un ritratto intimo e inedito.

L’album è già disponibile in preorder su Amazon, in versione CD e in versione LP e in formato digitale su iTunes.

Il primo singolo estratto da “You and I” è disponibile in limited edition 7" col B-side dell’originale di Sly & the Family Stone.

“You and I” è un album che racconta la peculiarissima sensibilità e l’eclettismo di Jeff Buckley, sia nell’incredibile gusto musicale che nel talento. Le otto cover dell’album includono "Just Like a Woman" di Bob Dylan; "Everyday People" scritta da Sylvester Stewart e interpretata da Sly & the Family Stone; "Don't Let the Sun Catch You Cryin'" scritta da Joe Green e interpretata da Louis Jordan, Ray Charles e altri; "Calling You" scritta da Bob Telson e interpretata da Jevetta Steele per il film Bagdad Café del 1987; "The Boy with the Thorn in His Side" e "I Know It's Over" degli Smiths; "Poor Boy Long Way from Home" di Booker T. Washington "Bukka" White (da una registrazione del 1939 di John Lomax) e "Night Flight" scritta da John Paul Jones, Jimmy Page, Robert Plant e interpretata dai Led Zeppelin.

Ad impreziosire il disco nelle dieci tracce sono inclusi due brani originali inediti: la primissima versione mai pubblicata del suo classico "Grace" e "Dream of You and I", un pezzo dall’atmosfera misteriosa e intensa.

Ricorre proprio in questi giorni l’anniversario dalla sessione nello studio Shelter Island Sound di Steve Addabbo (dal 3 al 5 febbraio 1993) durante la quale vennero mixate la maggior parte delle tracce raccolte in “You and I”.

Oltre ai tradizionali formati CD e LP di “You and I”, la Columbia/Legacy Recordings pubblicherà il singolo “The Boy With The Thorn In His Side” cover degli Smiths, in limited edition 7" col B-side “If You Knew (Live At Café Sin-e, NYC)” (4:28) [già edito]. 

INTERVISTA A STEVE BERKOWITZ

Quando hai sentito parlare per la prima volta di Jeff Buckley?

Ho sentito parlare di Jeff per la prima volta da Chris Doud dei Fishbowl, mio collega quando lavoravo alla Columbia. Una volta mi disse che dovevo assolutamente ascoltare il suo compagno di stanza cantare e mi diede questa cassetta, che ho ancora, di Jeff che suona i Led Zeppelin a casa sua. Ascoltandola pensai che il ragazzo sapeva davvero cantare, e successivamente scoprii che era figlio di Tim Buckley.

Circa un anno dopo Hal Willner mi chiamò chiedendomi se avevo delle registrazioni perché voleva organizzare un tributo a Tim Buckley a Brooklyn. Io avevo quasi tutte le registrazioni di Tim e sono stato tanto fortunato da vederlo quando a 19 anni suonava il suo primo album, così prestai tutte le mie cassette. Purtroppo non fui in grado di partecipare, e solo dopo venni a sapere che per l’evento cantò anche Jeff.

Più tardi ancora lavorai di nuovo con Hal Willner a un tributo a Charles Mingues. Ci vedevamo e andavamo in giro vicino a St. Mark’s place, quando un giorno Hal mi mostrò il posto dove suonava il figlio di Tim. Entrammo in questo piccolo posto chiamato Sin-E, tutto birre e caffè, e questo ragazzetto stava suonando davanti a quattro persone e, se mi ricordo bene, la barista era Sinead O’Connor. Era strano sentire Jeff cantare come un angelo e poi guardare Sinead, che sembrava un angelo, fare i caffè. È stata una serata magica, e Jeff era incredibile.

Com’era Jeff quando suonava al Sin-E?

Le sue canzoni, e parlo in qualità di musicista, erano diverse da qualsiasi altra sia per accordi che per vocalità, tipo un’orchestra. Non potevo credere che questo ragazzo, suonando brani a caso che non erano nemmeno suoi, fosse in grado di trasformare ogni canzone in modo da farti sentire tutte le orchestrazioni che lui percepiva. Jeff non si esibiva, faceva arte. C’era qualcosa nella sua musica, nel tempo e nelle sue dinamiche che mostrava un’armonia interna mozzafiato. Pensai: sto realmente sentendo tutto questo? Tutto ciò sta uscendo davvero da un solo uomo tutto in una volta? La risposta è si. Cominciai a frequentare il posto il più spesso possibile.

Com’era Jeff quando divenne famoso? 

Lavorando nel marketing devi essere scalpitante, devi fare pressioni per avere successo con la tua band. Nessuno aveva bisogno di tutto questo per Jeff. Lui era il suo stesso motore, non c’era nessuno a promuoverlo e alla fine ha iniziato da solo ad inviare cartoline ad una sua piccola mailing list, per fare più soldi e acquisire più visibilità a New York, unico posto in cui suonava. La gente, me compreso, cominciò a volerlo mettere sotto contratto così, quando lo feci ascoltare ai miei superiori, questi ebbero la mia stessa reazione. Andarono da amici, dalla ragazza e da altri musicisti che conoscevano Jeff perché pensavano di doverlo mettere sotto contratto, e così fu.

Chi ha deciso cosa avrebbe suonato Jeff durante queste sessioni?

Fu chiaro sin da subito che se dovevamo far maturare Jeff facendogli produrre il miglior album possibile, il modo più efficace era lasciarlo fare. Era così talentuoso e aveva così tanti modi di essere, che la parte più difficile per lui - e per me, se fossi stato il Jeff Buckley 24enne che non ha ancora inciso un disco - era decidere quale Jeff Buckley essere. Il figlio di Tim? Il ragazzo della West Coast a cui piaceva il prog-rock? Quello che capiva il jazz e il blues, le canzoni popolari, l’harem - b, il reggae e l’hardcore? Che disco avrebbe dovuto fare? Ciò che lo tormentava o non riusciva a decidere, non saprei, era come doveva essere Jeff Buckley: poteva scegliere qualsiasi stile, genere, tipo di voce, l’unica cosa che rimaneva costante era il suo suonare in base a ciò che sentiva al momento. Mi piace dire che Jeff era un musicista Jazz perché faceva una cosa un giorno e quello dopo poteva sembrare completamente diversa. Aveva l’abilità di improvvisare e suonare ciò che sentiva davvero.

Dopo aver firmato il contratto però, non avendo né canzoni né demo proprio a causa di questa situazione che si era creato, Jeff non fu veloce nel registrare l’album. Tutti lo supportavano perché facesse un bel disco ma lui non riusciva a decidersi. Alla fine trovai la soluzione. Gli dissi: perché non andiamo in studio e registri qualcosa, qualsiasi cosa? Prenotammo lo studio di Steve Addabo e lì vennero fuori un po’ di canzoni. Lo convinsi a scegliere 6 o 7 pezzi da quelli registrati, in modo da dare una direzione al lavoro, e così nacque l’album, in quelle che io chiamo Addabo sessions. Per tre giorni siamo andati in studio. All’inizio Jeff non era a suo agio, probabilmente sentiva troppa pressione, così cercavamo in ogni modo di farlo rilassare, prendendo il tutto come un gioco. Era il gennaio del ’93 e, sotto contratto già da due mesi non avevamo comunque niente. Nonostante l’impazienza non potevamo fare pressione su Jeff, sapevamo che non avrebbe funzionato, alla fine per fortuna si rilassò e iniziò a suonare cose da club. Aveva un tale orecchio e il desiderio di internalizzare la musica e farne un’arte che se gli chiedevi chi erano Sly & The Family Stone lui ti diceva che sapeva chi erano, ma che non li aveva mai suonati. Questo perché quando prendeva una canzone non ne faceva una cover, ma la suonava come la percepiva in quel momento. Iniziando a caso tirava fuori un capolavoro, per poi magari dire che non gli piaceva ed abbandonarla, anche se è la stessa che stiamo ascoltando ora.

La tragedia nella sua scomparsa prematura è che c’era ancora così tanta musica che poteva fare, ed è evidente anche dalle Addabo sessions: ciò che faceva a volte era per la prima e unica volta.

Quali sono le canzoni di maggior rilevanza in questa sessione?

L’obiettivo delle Addabo sessions era creare un repertorio di contenuti e canzoni che Jeff potesse e volesse suonare regolarmente. Quando si lasciò andare creò You & I, che è una canzone su un suo sogno, fantastica. Non appena cominciava a parlartene diventava un’opera. Ciò mi porta a dire che Jeff era davvero il classico compositore: le sue produzioni non erano canzoni ma toccavano tutti gli aspetti. Modi di registrazione, suono degli strumenti, vocalità, curava tutto nei minimi dettagli e sul momento. Aveva la testa del compositore e creava le sue armonie. Non è che si sedeva dicendo “adesso scrivo una canzoncina” e You & I è un esempio di tutto questo: una storia basata su un sogno, che ha differenti tempi dentro di se, che si espande e diventa una canzone più grande, come altre all’interno di Grace. Gli ci volle un po’ per completare la sua composizione, ma era questa la parte affascinante di essere testimone di quei momenti in cui faceva uscire le sue idee.

Non è chiaro se dedicasse i suoi lavori a qualcuno o se avesse delle determinate ragioni per cantare, ciò che è certo è che i suoi erano principalmente lavori che gli saltavano in mente il giorno stesso.

Se fossimo andati 6 o 9 giorni in studio anziché 2 o 3, forse sarebbero nate altre canzoni a cui poi avrebbe continuato a pensare e, date le sua abilità pressochè illimitate nell’assimilare qualsiasi genere di musica, il disco finale sarebbe stato completamente diverso. Questo era il dna di Jeff, unito alla sua esperienza, ad una sete inesauribile per ogni tipo di musica e all’abilità di ritradurre il tutto.

Perché Jeff è venuto all’East Village?  

Venne a New York per essere se stesso e per scoprire cosa poteva fare. Voleva suonare set infiniti, per esaurire tutta la sua esperienza e il suo passato e così muovere oltre, campionando nuovi tipi di musica ed espressioni. Jeff era coinvolto in teatro e recitazione sperimentale e non era interessato a diventare una pop star, anzi lo detestava. Era disgustato quando si ritrovava nella top 100 delle persone più attraenti e faceva di tutto per evitarlo. Voleva che la musica e l’arte parlassero per lui, e il fatto che fosse bello e talentuoso, anche se non voleva, era una sua qualità. Venne a New York per capire quale Jeff Buckley essere e cosa suonare, poiché fino ad allora aveva improvvisato. Questo disco è proprio questo: prima c’era My Sweetheart the Drunk, progetto incompleto che doveva essere il secondo lavoro, poi c’è Grace, l’unico album completo, e prima ancora il lavoro intimistico per evitare le grandi etichette e la pubblicità, Sin-E. Era uno sforzo per creare un prima, per far sentire anche durante i concerti chi era per davvero. Per questo scopo prima di Sin-E c’era questo disco, Addabo sessions. Era un serbatoio di cose che voleva suonare e con cui andare contro all’industria, ma a volte anche una produzione da cui allontanarsi per concepire qualcosa di nuovo.

Com’era Jeff come persona?  

Era un’ottima persona, un caro amico, che mi manca ogni giorno. Mi piace dire che sono stato fortunato a conoscere Jeff e ad avere un rapporto con lui che si basava sul non detto, sullo sguardo, sull’intesa. Dal primo giorno siamo stati “music pals”, e parlare con lui di ogni tipo di musica era magnifico, anche se avevamo opinioni differenti.

Capiva la differenza tra una buona canzone e una ottima, e voleva che le sue fossero grandi quanto poteva esserlo lui. Ogni volta voleva essere sicuro che il suo pezzo fosse “badass”, parole sue.

Era diverso con diverse persone. Molti dicono che era un grande amico, secondo me possedeva una abilità alla Bill Clinton: quando parlavi con lui sentivi che lui stava davvero parlando con te. Aveva un’energia incredibile ed era molto divertente, probabilmente sarebbe piaciuto a persone come Jim Carrey o Robin Williams. Mi ricordo che nel ’93-94 venne a casa nostra. Dopo aver giocato con mio figlio di 4 anni ci sedemmo sul divano per vedere un cartone dei Looney Tunes, e ad un certo punto lui si mise in piedi di fianco alla tv e iniziò a scimmiottare alla perfezione i personaggi e ogni singolo suono che usciva dallo schermo. Mio figlio mi chiese perché Jeff sapeva a memoria queste cose, in non lo sapevo così rimanemmo seduti a guardarlo. Faceva così con tutto: memorizzava il pezzo per intero e sapeva esattamente cosa faceva ogni singolo strumento. Imitava addirittura i musicisti, i personaggi o i movimenti. Aveva grande passione per la musica, e fortunatamente quando suonava live non si esibiva ma era davvero lui, saliva sul palco con la sua band e faceva musica.

INTERVISTA A STEVE ADDABO

Quando hai sentito nominate Jeff Buckley per la prima volta?

Ho sentito di lui durante il suo periodo al Sin-E, poi in seguito quando Steve Berkowitz ed io abbiamo iniziato a lavorare insieme.

Perché Jeff è arrivato all’East Village?

Era un posto molto accogliente e in quell’ambiente un musicista poteva sopravvivere. Gli affitti e i prezzi in generale non erano molto alti e la zona era piena di locali in cui si poteva suonare. Personalmente mi sentivo a casa li, poiché con i miei parenti ci eravamo trasferiti dall’Italia per andare a vivere proprio lì vicino.

Ci potresti descrivere St. Mark’s Place?  

St. Mark’s place era in pratica un magnete per gli Hippies e la cultura alternativa. Era la frontiera per le generazioni più giovani, il posto dove potevi suonare per strada e stare in giro fino alle tre del mattino. Era pieno di giovani alternativi, un posto dallo spirito libero.

Com’era il Sin-E?

Era un posto molto piccolo, con pochi tavoli, un coffeebar in fondo e nessun palco. Gli artisti suonavano per terra, con un microfono e due speakers. Attirava molti musicisti perché non si pagava il coperto, e in più c’erano molte belle storie su Sinead O’Connor, ormai una leggenda, che attiravano la gente.
A quel tempo era un posto da tutti i giorni: quando Jeff suonava potevi trovarci dodici persone, che era un gran numero. Se si esibiva qualcun altro potevi invece vederlo suonare la sua chitarra in disparte o girare tra i tavoli.

Com’era quando Jeff suonava al Sin-E?  

Lui semplicemente si sedeva e suonava. Sapevo che stavo guardando qualcuno di bravo ma non mi rendevo conto che avrebbe fatto parte della storia della musica. Inoltre il Sin-e non era così speciale: nessuna grande illuminazione, nessun palco, chi suonava lo faceva praticamente in mezzo ai tavoli, nello stesso posto dove tu sedevi.

Com’era Jeff come artista e come cantante?

Era come un vulcano: quasi sempre tranquillo, ma poi all’improvviso esplodeva. La sua voce aveva un range ampissimo, suonava la chitarra benissimo e il suo fraseggio era ottimo: andava da un ritmo dolce e lento al più duro e veloce, era sorprendente e non si sapeva mai cosa aspettarsi.

Mi ricordava un cavallo selvaggio ma gentile, c’era qualcosa di indomito in lui. Quando venne nel mio studio e ci guardammo negli occhi percepii un fuoco, non qualcosa che doveva essere domato ma piuttosto un’indole. Era un’artista molto forte, ma allo stesso tempo umile e genuino, ti guardava dritto negli occhi e si ricordava subito il tuo nome.

Com’era registrare con Jeff?

Dopo che firmò con Berkowitz il processo di registrazione fu molto lento. Fare qualcosa con un artista così diverso era difficile. L’idea era lasciarlo fare in una situazione che fosse confortevole, lasciargli suonare ciò che voleva, saltando da un pezzo all’altro. Volevamo ottenere un repertorio dal quale poi Berkowitz potesse partire per produrre il disco.

Il punto era vedere cosa riusciva a fare, e il risultato sono state molte cover, dei generi più disparati, ma anche molto altro. Durante queste sessioni non si sapeva cosa scegliere, cosa usare, quale sarebbe stata l’essenza di questo primo disco. Ho fatto molti primi dischi con altri artisti e posso dire che si parte sempre da qualcosa di definito, ma il lavoro di Jeff era quasi un universo espanso.

Queste sessioni erano simili a ciò che faceva al Sin-E?  

In studio speravamo di farlo sentire come davanti a una audience per fargli suonare cosa gli usciva dalla testa, senza direzionarlo in alcun modo. Lui suonava e anche durante le registrazioni si interrompeva dicendo che voleva rifare qualcosa o che voleva iniziare roba nuova. Secondo me è stato un bene per lui passare dal live allo studio perché li dentro sentiva di poter trovare il suo modo di fare musica, la sua via.

Com’era Shelter Island durante le sessioni?

É stata una registrazione molto semplice: non avevamo un granchè di strumenti, in studio non c’era un piano acustico, così io avevo messo a disposizione le mie chitarre e lui aveva portato la sua. Avevo messo in sala solo due bei microfoni. L’abbiamo semplicemente registrato live, in tutto quello che voleva fare lui, senza restrizioni.

Chi ha deciso cosa doveva suonare Jeff durante le sessioni?  

Decideva tutto lui. Noi guardavamo al catalogo e lui andava a caso dall’una all’altra, sapeva cosa doveva fare era a suo agio a saltare da una parte all’altra, non abbiamo mai cercato di organizzare niente al posto suo. D’altronde quando abbiamo preso questi tre giorni nessuno sapeva troppo della storia di Jeff, per noi era un ragazzo sconosciuto e il mio obiettivo e solo metterlo a suo agio. Sapevo che era figlio di Tim, ma lui non cercava di ricreare niente dal suo passato e a malapena conosceva il lavoro di suo padre. Fu come lavorare con un foglio bianco. Le sue dinamiche di composizione, la sua voce e chitarra erano incredibili, e ci accorgemmo subito della fortuna che avevamo a lavorare al disco di un personaggio del genere, anche se non sapevamo come far uscire un album da un repertorio simile. Uno dei periodi più magici della mia vita.

Com’era registrare con Jeff?

Sfortunatamente sulla cassetta si sentono solo le dieci canzoni del disco, e non tutto il resto. Le registrazioni arrivano a cinque ore e spero che prima o poi vengano pubblicate perché potremmo sentire un Jeff molto rilassato, che scherza, parla del più e del meno, delle persone. C’è molto di più di dieci canzoni lì dentro.

Andai a vedere chi aveva scritto quelle canzoni dopo le sessioni di registrazione e fondamentalmente erano tutti degli ottimi pezzi, scoprii che uno era di Bob Telson. Come produttore mi ritengo ignorante riguardo ai diversi tipi di musica, ma quando sentivi una canzone suonata da qualcun altro capivi come Jeff la facesse sua, tanto da sembrare che la sua esecuzione fosse l’unico modo appropriato di suonarla.

Scriveva tante canzoni a quel tempo?  

Frank Sinatra o Elvis Presley non hanno scritto gran parte delle loro canzoni. Nei primi ‘90, i tempi in cui Jeff suonava, era già passato il boom del cantautorato degli ’80.

Nei ‘90 non c’era una corrente pop o un formato definito, la maggior parte erano cover artists, e questa era la pressione più grande su Jeff. Nonostante questo quando Bob Telson ha scoperto che la sua canzone era sul disco la ascoltò e disse che era stupenda. Una ulteriore prova del talento di Jeff.

Come ha fatto Jeff Buckley a finire nel tuo studio?  

Ho incontrato Barkowitz nei ‘90 quando era produttore per la Columbia e mi coinvolse in alcun progetti. Quando si spostò alla A&R si ricordò di me per le sessions di Jeff. Lavorando entrambi per una etichetta non potevamo permetterci di rimanere su un genere solo, dovevamo diversificare, così ci trovammo per Jeff.

JEFF BUCKLEY
Hanno detto di lui…

JIMMY PAGE
“Innegabilmente questi suoi primi lavori ci fanno intravedere un genio musicale al lavoro”.

“Lui riusciva a toccare una così ampia gamma emozionale da far sue anche le canzoni di Benjamin Britten e Leonard Cohen”.

“Tecnicamente è stato uno dei migliori cantanti di quelle due decadi… Jeff Buckley è stata una delle più grandi perdite di tutti i tempi”.

STEPHEN THOMPSON
“Ci si sente come in un vero e proprio dissotterramento - qualcosa di cui vale la pena fare tesoro”.

ADELE
“Provo da sempre ad ascoltare musica che riesca a tirarmi su di morale anche se non sempre la comprendo fino in fondo. Ad esempio con Jeff Buckley. Ed è stato così per tutta la mia vita. Mi ricordo ancora il litigio con la mia migliore amica, quando avevo circa sette anni, e di come mi sono ritrovata ad ascoltare Jeff Buckley, perché mia mamma era una sua grande fan. È come se Grace fosse sempre stato intorno a me”.

BONO
“Jeff Buckley era una goccia pura in un oceano di rumore”

JEFF BECK
“La semplicità e la bellezza della voce di Jeff Buckley sono meravigliose per me. Ho sempre pensato che se fosse riuscito a fare con la mia chitarra quello che lui faceva con la voce, allora avrei potuto creare qualcosa di veramente speciale”.

BEN HARPER
“Jeff è uno dei miei cantanti e musicisti preferiti di sempre. Non ho visto un potenziale musicale così infinito in nessuno”.

ELVIS COSTELLO
“Non tutti possono cantare qualcosa che gli piace e renderlo proprio, cantare col cuore e essere curiosi verso tutti differenti tipi di musica. Il “Corpus Christi Carol” di Jeff era interpretato in un modo che glielo faceva appartenere completamente. Non avevo mai sentito prima il brano e quando ho ascoltato l’originale ho realizzato che quello che aveva fatto Jeff era ancora più straordinario. L’ha portato nel suo mondo. E questo è qualcosa che i miei musicisti preferiti riescono a fare, essere se stessi, ma usare tutta quella loro esperienza per rendere la musica ancora più bella. Jeff faceva tutto questo in modo naturale. E solo poche persone sono capaci di farlo”.

ROBERT PLANT
“Stavo suonando con Jimmy a metà degli anni ’90 e lavorando con un gruppo egiziano, quando suonammo a un festival in Svizzera, dove si sarebbe esibito anche Jeff Buckley. Andammo a vederlo e fu un’esperienza straordinaria. La sua voce era spettacolare. E c’era così tanta passione.”

ANN POWERS
“La musica di Buckley vede in primo piano il processo creativo e questo processo è pienamente integrato con i testi che lui ha scritto con attenzione, fondendosi eroticamente con essi, dandogli non solo nuova vita ma nuova forma, un nuovo corpo”.

ELISABETH FRASER
“ ‘Grace’ mi fa letteralmente accapponare la pelle. Quando l’ho ascoltato per la prima volta ho avuto le vampate, nessuna musica mi aveva fatto questo prima”.

EDDIE VEDDER
“Ero con Jeff una volta, eravamo seduti, stavamo parlavamo e suonando insieme e lui ha fatto questa versione di “Indifference” per me… Non me la dimenticherò mai…ero senza parole, è stato uno dei momenti più indimenticabili della mia vita. Vorrei solo averlo visto di più”.

JOAN OSBORNE
“C’è stato un periodo in cui non passava giorno senza che io avessi ascoltato per tre o quattro volte “Halleluja”. Lui aveva una voce su un milione e uno stile di chitarra emozionalmente profondo”.

CHRIS CORNELL
“Jeff era un cantante straordinario ed è destinato ad essere l’artista più importante nella vita di così tante persone. Jeff ispirava ad espandere il proprio modo di pensare a se stessi e alla musica”.

“YOU AND I” di JEFF BUCKLEY
Note di copertina

Il processo di gestione dell’eredità musicale di musicisti scomparsi e la pressione che si vive nell’esserne il curatore non assomigliano per nulla a quanto accadrebbe se l’artista fosse ancora vivo. Niente. Nulla nel contratto di registrazione di un artista dice: "Se l'artista muore, il controllo passerà a sua madre", e questo riguarda anche il contratto firmato da Jeff. Eppure, negli ultimi 18 anni, ho avuto lo straordinario privilegio di avere il ruolo di produttrice per ognuna delle sue uscite postume. È stato un misto di desiderio, timore e senso del dovere che ho messo in gioco per contribuire a creare progetti che onorassero la suprema arte di Jeff e preservassero la sua autenticità.

L'elenco completo delle tracce registrate da Jeff riempie un faldone conservato negli archivi della Columbia. Ha registrato prove ed esercizi. Ci sono programmi radiofonici, brani scartati e demo, la stragrande maggioranza dei quali sono ripetitivi, incompleti o comunque "non pronti per il pubblico". Nel 1998 abbiamo provato a valutare il materiale per decidere quale sarebbe stata la prima versione postuma. I chilometri di nastro con queste registrazioni ci hanno fatto scoprire alcune gemme tra tutto il materiale disponibile. Ero pronta a prendere in considerazione di fare qualsiasi cosa per far uscire il lavoro su cui Jeff aveva messo tanto del suo cuore e della sua anima proprio prima della sua morte. Così portai avanti la preparazione della pubblicazione del doppio CD "Sketches for My Sweetheart the Drunk".

Nel 1998, dopo la scomparsa di Jeff la mia prima richiesta in merito ai progetti postumi è stata: "Le registrazioni che abbiamo sono le vere reliquie di Jeff. Dobbiamo trattarle come tratteremmo il suo corpo per la sepoltura, no make up, no abito di Armani, lasciare lo smalto verde sull’unghia dell’alluce, e non tagliare o pettinare i capelli". Con mio estremo sollievo e gratitudine, credo che siamo stati in grado di raggiungere con fervore l'essenza di questa metafora nel corso degli anni, e ancor di più con questo particolare progetto.

Questa volta abbiamo pensato che sarebbe stato bello raccogliere alcune delle registrazioni demo che Jeff ha fatto subito dopo aver firmato con l'etichetta. Questo repertorio, per quanto era ampio e profondo, si è dimostrato all'altezza dei suoi "cafe days" [Il periodo in cui suonava al Sin-è dell’East Village di New York, Nrd]. Doveva tenersi il suo pubblico notte dopo notte, settimana dopo settimana, così ha condito la sua scaletta con innumerevoli brani “vecchi ma buoni”. Si è messo alla prova con canzoni che hanno reso popolare tutta una serie di artisti indietro nel tempo fino a Robert Johnson, e con diversi generi da Broadway al pop, dal jazz al rock, e tutto ciò che è nel mezzo. Tutto quello che si doveva fare era farlo entrare in un ottimo studio con un buon tecnico al mixer, accendere il microfono e avviare la registrazione. Oro.

Queste registrazioni sono inalterate e inedite. Chiudete gli occhi, alzate il volume o mettete il vostro auricolare. Siete solo voi, lui e i ragazzi della sala di registrazione. Godetevela.

MARY GUIBERT

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